LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale
contro  Angelini Mirko con sentenza del Tribunale di Fermo in data 16
aprile  2002 veniva dichiarato non doversi procedere nei confronti di
Angelini   Mirko   in   ordine  al  reato  di  ingiuria  commesso  in
Ripatransone il 29 giugno 1999 per essere il reato stesso estinto per
intervenuta remissione di querela.
    Nel  provvedimento  si osservava, in particolare, che dall'omessa
comparizione  del  querelante  al  dibattimento  doveva  desumersi la
volonta' di quest'ultimo di rimettere la querela.
    Avverso   detta   sentenza   presentava   tempestivo  appello  il
Procuratore  Generale  chiedendo  venisse  invece affermata la penale
responsabilita'   del   prevenuto  rilevando  che  dal  comportamento
processuale  della  p.o. non poteva desumersi la volonta' di lasciare
impunita l'offensiva.
    Alla  odierna  udienza  il Procuratore Generale, preso atto della
sopraggiunta  legge  20  febbraio  2006 n. 46 che aveva introdotto la
inappellabilita'  da  parte del pubblico ministero, delle sentenze di
proscioglimento,  eccepiva  la  illegittimita'  costituzionale  degli
artt. 1  e 10 della citata legge, per contrasto con gli artt. 3 e III
della Costituzione.

                            O s s e r v a

    L'art. 1  della  legge  n. 46  del  20  febbraio 2006, entrata in
vigore  il 9 marzo 2006, ha modificato l'art. 593 c.p.p. nel senso di
precludere  al  pubblico  ministero  di  proporre  appello avverso le
sentenze  di  proscioglimento  (salvo  l'ipotesi eccezionale di nuove
prove decisive, non verificatasi nel presente processo).
    L'art. 10  della stessa legge n. 46/2006 prevede poi che la legge
trovi  applicazione  anche  per i procedimenti in corso, imponendo al
giudice  innanzi al quale pende l'appello proposto prima dell'entrata
in  vigore  della  novella,  di emettere ordinanza non impugnabile di
inammissibilita' dell'appello.
    Evidente, pertanto, e' la rilevanza diretta nel presente giudizio
della   questione   proposta   dal   Procuratore  Generale  dovendosi
senz'altro  applicare  nel  procedimento in esame la nuova disciplina
della cui legittimita' costituzionale il Procuratore Generale dubita.
    Altrettanto  deve concludersi in ordine all'ulteriore presupposto
della non manifesta infondatezza della questione.
    L'art. 111,  secondo  comma  Cost.  dispone  che il processo deve
svolgersi  nel  contraddittorio  tra  le  parti,  «in  condizioni  di
parita», davanti a giudice terzo ed imparziale;
        la  disposizione  censurata  dal  Procuratore  Generale aveva
indotto il Capo dello Stato, prima della sua definitiva approvazione,
a  chiedere  una nuova deliberazione al Parlamento sotto vari profili
ed   anche   a   motivo   che  le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili non dovevano mai travalicare i limiti
fissati  dal  citato  art. 111  Cost.;  la  norma in esame invece non
sembra  compatibile  con  il  principio di ragionevolezza, desumibile
dall'art. 3  della  Cost.,  perche'  senza plausibile ragione pone le
parti  del  processo  su  un  piano  di  palese disparita' sulla base
dell'assioma, contrario all'esperienza giudiziaria ed alla dialettica
processuale,  che  sempre esista un ragionevole dubbio in ordine alla
responsabilita' dell'imputato sol perche' il giudice di prima istanza
abbia  ritenuto  la  sua  innocenza,  escludendo  a priori che quello
stesso   giudice   che  puo'  sicuramente  errare  nell'accertare  la
responsabilita'  penale  dell'imputato  non  puo' mai (si sottolinea:
mai) fallire nell'affermame l'innocenza;
        la  riforma, dunque, ha varcato i limiti della ragionevolezza
sottraendo  ad  una  sola  delle  parti  del  processo,  al  pubblico
ministero,  uno  strumento  processuale  volto a vedere affermata nel
giudizio  la  sua  pretesa  punitiva,  pretesa  che  trova  esplicita
legittimazione  costituzionale  al  pari di quella dell'imputato, che
invece,  con  la  riforma,  rimane  pienamente titolare del potere di
impugnare  la  decisione  a  lui  sfavorevole,  la qual cosa viola il
ridetto  principio  posto  dall'art. 111  Cost.  che  prevede  che il
processo  si svolga in condizioni di parita' di tutte le parti, cioe'
in  una  condizione  di  diritto  che  assicuri  a  ciascun  soggetto
processuale  uguali  strumenti  per  raggiungere  gli  obiettivi suoi
propri,  fatta  salva la presunzione di innocenza che tuttavia non e'
una  presunzione  assoluta, come sembra affermarsi con la riforma, ma
relativa  potendo  essere  superata  dalla  prova  processuale  della
colpevolezza  -  vi  e'  poi  da aggiungere che la riforma si applica
indifferentemente  a  tutti  i  tipi  di giudizio e persino contro le
sentenze  emesse  "  art. 428 c.p.p. laddove il patrimonio probatorio
valutabile  non  e'  neppure  definitivamente stabilizzato ed e' solo
prospetticamente apprezzato;
        peraltro la nuova disciplina crea una ulteriore irragionevole
disparita'  di trattamento laddove per un verso impedisce al pubblico
ministero l'appello contro le sentenze di proscioglimento e per altro
mantiene   la  possibilita'  per  lo  stesso  pubblico  ministero  di
appellare la sentenza di condanna, in tal modo tutelando un interesse
processuale di ben minore consistenza.
    Sotto  altro  profilo  costituzionale,  si  osserva che l'art. 24
della  Cost.  garantisce  il  diritto di difesa di tutte le persone e
dunque  non sono solo il diritto di difesa degli imputati ma anche il
diritto  delle parti offese dei reati; l'esercizio dell'azione penale
del  pubblico  ministero  spiega  anche la funzione (ne cives ad arma
veniant)  di  offrire  alle vittime dei reati l'essenziale tutela del
loro  interesse  ad  ottenere  giustizia,  a  prescindere dal ristoro
patrimoniale   che  non  puo'  dirsi,  per  un  elementare  principio
etico-giuridico,  di  per se' compensativo dell'offesa subita, questo
legittimo   interesse   ad   avere   la   tutela  dello  Stato  viene
irragionevolmente  compresso attraverso la limitazione del diritto di
appello del pubblico ministero, peraltro con il concreto pericolo che
sia  affermata in sede penale l'innocenza di una persona riconosciuta
da altro giudice civilmente responsabile del medesimo fatto di reato;
la  monetizzazione  del  reato  inoltre  creerebbe  un  intollerabile
divario  tra  i  cittadini  in relazione al reddito ed alla capacita'
patrimoniale dell'autore dell'illecito;